LA VITA E LA MORTE NEI MISTERI ELEUSINI – di Monica Capobianco

Lezioni di Archeosofia

I Misteri Eleusini si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra ad Eleusi ed erano considerati le più importanti cerimonie segrete dell’antica Grecia. Con rituali affascinanti si rappresentava il mito del rapimento di Persefone, figlia di Demetra, da parte del re degli inferi Ade, con un ciclo a tre fasi: la “discesa”, la “ricerca” e l’ “ascesa”. Il tema principale era l’ascesa di Persefone, la riunione con sua madre Demetra e la nascita di Dionisos da Persefone.

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LA VITA E LA MORTE NEI MISTERI ELEUSINI – di Monica Capobianco

I Misteri Eleusini si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra ad Eleusi ed erano considerati le più importanti cerimonie segrete dell’antica Grecia. Con rituali affascinanti si rappresentava il mito del rapimento di Persefone, figlia di Demetra, da parte del re degli inferi Ade, con un ciclo a tre fasi: la “discesa”, la “ricerca” e l’ “ascesa”. Il tema principale era l’ascesa di Persefone, la riunione con sua madre Demetra e la nascita di Dionisos da Persefone.

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IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE – di Monica Capobianco

Capita a tutti di porsi delle domande in merito alla finalità della nostra vita e all’apparente suo eterno divenire privo di causa, soprattutto in periodi difficili come questo, dove assistiamo ad un susseguirsi di eventi infelici a cui spesso non sappiamo assegnare una precisa logica.
Speranza e fede ci sorreggono, la scienza ci aiuta, ma non basta. L’incertezza sul nostro futuro rimane.

Anche i nostri progenitori si ponevano delle domande. Vediamo in sintesi quale era la concezione della vita e della morte nelle principali civiltà e culture antiche. Ci accorgeremo che i meccanismi della rinascita e della logica dell’esistenza terrena, insieme alle descrizione della vita nell’Aldilà,  hanno un filo in comune che lega tutte le dottrine religiose più importanti; vi sono delle nette similitudini a cui non si può non dar credito, anche perché emergono dalle ricerche e dalle esperienze delle menti più brillanti e affidabili della storia dell’umanità, uomini e donne che hanno lasciato ai posteri una preziosa Saggezza, da loro acquisita con fatica e sacrificio.

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IL BELLO E IL SACRO – di Massimiliano Galastri

APPUNTI SULL’ESTETICA DELL’ICONA

C’è poco da fare, le icone non mi sono mai piaciute. Soprattutto non ero riuscito a lungo a spiegarmi perché i primi cristiani optarono per un’arte che sembra così astratta e cruda.
Nell’Impero romano non mancavano esempi e modelli artistici capaci sia di un realismo più esatto (la prospettiva era conosciuta bene in pittura) sia modelli improntati al senso della magnificenza, o del meraviglioso o del simbolico.
Proprio non si capisce perché il Cristianesimo optò per una forma di rappresentazione artistica così strana, deformata, tesa, irrealistica fino a sfiorare l’irrazionale.

Si può capire l’arte simbolica e criptica delle catacombe, il loro necessario codice cifrato, la forza del segreto che emerge dai pochi, essenziali segni lasciati dai primi cristiani ai tempi delle grandi persecuzioni, ma non si può capire storicamente perché i pittori cristiani scelsero questo stile e questo codice originali anche quando il cristianesimo divenne religione tollerata prima e di stato poi.

La prima impressione davanti alla rappresentazione iconica è che sia stata dipinta da dei pittori incapaci. Si ha l’impressione che sia sostanzialmente una forma d’arte “brutta” perché l’artista non è stato capace di rappresentare e quindi di comunicare quello che sentiva, pensava e vedeva. Ma siamo sicuri che sia così?


Qual è la sottile differenza che passa tra ciò che è semplicemente bello e ciò che è bello e sacro? Abbiamo tanti esempi di arte sacra in tutto il mondo. Essa va distinta in modo radicale dall’arte semplicemente a carattere o tema religioso, commemorativo o devozionale.

Per capire l’icona bisogna prima percepire con chiarezza questa distinzione.
Chi ha visitato un po’ il mondo si sarà sicuramente imbattuto di persona in qualche monumento o vestigia del passato rimasti ammantati di questo magnetismo che emana dal mondo del Sacro.
Chi ha visitato dal vivo le grandi Piramidi e i loro segreti corridoi, chi ha potuto sostare a lungo e magari aggirarsi solitario dentro la cattedrale di Chartres, passeggiare nelle grotte di Ajanta o vedere calare la notte sulla cima di Le Monte S. Michel sa di cosa stiamo parlando.

In questi luoghi, così lontani tra loro in tutti i sensi, si parla la stessa lingua, che sussurra all’orecchio teso e predisposto all’ascolto lo stesso messaggio. Nel silenzio e il rispetto evocati da queste grandi costruzioni l’anima si pone in ascolto e riesce ad udire la voce dello spirito, il richiamo dell’Infinito.
Ancora non contempla, ma una nuova forma di udito si risveglia in questi posti. Infatti l’occhio dell’osservatore vede, ammira, riconosce questo arcano linguaggio ma se dovesse spiegarlo dovrebbe ammettere che non lo capisce, non sa interpretarlo né decifrarlo.

Tutti restano attoniti davanti alla manifestazione del Sacro che l’Arte (sacra) ben riuscita riesce ad evocare ed invocare nello spettatore. I simboli sembrano viventi, le geometrie studiate fino al millimetro permettono di imbrigliare forze invisibili e riversarle sullo spettatore.
Qualcuno (solo qualcuno purtroppo) di questi artisti, o maghi, o scienziati, ha delineato nei canoni scelti le leggi per mettere un mondo in presenza dell’altro. Per mettere il nostro mondo magicamente in comunione e alla Presenza del Divino.

Di bello ce n’è tanto nell’arte, e nel mondo un po’ dovunque. Il bello attrae perché ciò che è buono deve necessariamente essere anche bello. La bellezza è una delle vesti della bontà. Anche i Classici lo avevano capito. Ovviamente la Bellezza è uno degli attributi assoluti di Dio. Infatti la Kabbalà ebraica (ma anche la teologia Indù) non certo a caso, indica il cuore dell’uomo come il luogo dove la creature potrà contemplare Dio in tutta la sua bellezza.

Ma nel nostro mondo il bello si è frantumato e frammentato nella natura, è un frattale della vera bellezza, della bellezza integrale di Dio. Ed è diverso cercare di rappresentare il bello in qualche forma tracciando la sua effige in una porzione della natura (un fiore, un pesce…), dell’uomo (un ritratto), della vita (una vicenda storica) e di quant’altro, altra cosa è l’ambizione artistica più rischiosa e quasi titanica: cercare di dare un volto a Dio, di rappresentare il bello di Dio in forma grafica.
Dare un volto all’Assoluto e renderlo percepibile agli altri è praticamente un atto prometeico.

Non voglio esprimere pareri sulla teologia dell’icona: altri come Evdokimov, Soloviev, Florenskij e tanti altri sono stati fin troppo eloquenti e non c’è bisogno di aggiungere molto alle loro spiegazioni in difesa dell’arte iconografica. E prima di loro tutti i martiri che hanno difeso queste forme d’arte fino alle estreme conseguenze, testimoniano di quanto quest’arte avesse per loro un valore assoluto, indiscutibile.

Così come la Cattedrale, l’icona non si spiega (come si è soliti fare con le opere d’arte), l’icona si vive; la vive sia chi dipinge sia chi l’osserva. Altrimenti resta estranea, impenetrabile, fugge l’occhio profano che vuole violarla o meglio l’occhio profano fugge dalla presenza dell’icona.
Per apprezzare l’icona, è quasi inutile dirlo, bisogna avere la fortuna di poter vedere dal vivo una VERA icona.

Le vere icone sono diventare rare, poche sono scampate alla distruzione del tempo e degli uomini. Ma sono quelle che si devono andare a vedere se si vuole penetrare un poco il loro mistero.
Fruire davvero di un’icona non crea quel senso di indigestione che l’amante dell’arte prova dopo essersi goduto la visita qualche grande galleria o qualche famoso museo. Non ci sono sindromi di Stendhal davanti all’icona. Chi sa contemplare un’icona ne esce alleggerito, a volte intimorito, ma di sicuro l’appetito estetico dello spettatore non resta ingolfato, semmai stuzzicato.

La bellezza di Dio e del suo Mondo di cui l’icona vuole essere portatrice come tutte le forme di arte sacra è anche terribile.
Perciò a volte l’icona intimorisce lo spettatore.
L’icona è un’esperienza estetica da provare. Per capire ciò che scrivo non c’è altro da fare che imbattersi in una vera icona. Essa può intimidire o attrarre a seconda delle condizioni dello spettatore. Quasi come in fisica moderna, secondo il principio di indeterminazione, l’interazione tra spettatore e oggetto è vincolante e imprescindibile. Il risultato di quest’interazione è l’impressione estetica, tutta particolare, che resta scolpita a lungo nella coscienza dello spettatore stesso. Essa polarizza chi la osserva e le conseguenze sono estreme: davanti all’icona o si fugge o si rimane affascinati, attratti in modo lucido (non ipnotico) dalla sua aura.

Può sembrare troppo radicale dire che davanti all’icona o si fugge o si resta magnetizzati positivamente. Invece è così ogni volta che l’essere umano introduce se stesso alla presenza del Sacro.
L’icona riuscita è uno dei veicoli indiscussi di questa Presenza e pertanto l’uomo che incontra l’icona non può restare indifferente alla profusione del suo linguaggio che impatta violentemente l’occhio dello spettatore: è costretto ad accogliere il messaggio o a chiudere gli occhi e sottrarsi alla sua presenza.
Quindi le condizioni di chi guarda l’icona sono determinanti rispetto al risultato che ne viene fuori.

Carolina Franza

L’arte moderna e contemporanea ha cercato a lungo questo dialogo con lo spettatore, fino a perdersi. Ma essendo un dialogo incapace di intimità e di condivisione profonda con l’interlocutore, si è sempre interrotto fallendo lo scopo. Fino a diventare idiosincrasico, perdendo ogni valore semantico e facendo decadere l’arte ad una espressione monadica e solipsistica dell’artista. Un’arte che voleva essere libera e vicina allo spettatore si è imprigionata nell’anarchia e nel caos indeterministico.


L’arte attuale si è chiusa e allontanata dalla gente che ormai fugge e deride l’arte contemporanea, perché si è rifugiata nella torre di linguaggi incomprensibili fino a creare  forme d’arte prive di qualsiasi comunicatività e comunicabilità.

Au contraire, nella solitudine e nell’isolamento del monaco fu forgiata l’arte più intima, più ambiziosa, più comunicativa. Quella che pretende di mettere in comunicazione le anime tra di loro e le anime addirittura con il Divino e l’Assoluto. L’arte che vuole addirittura sottrarre l’artista che deve diventare un medium, trasparente come il cristallo, fino ad annullare la presenza stessa dell’artista per mettere in comunione la creatura con il suo Creatore. L’artista nell’icona scompare, deve essere solo il tramite di una manifestazione, di un’epifania.

Ma cosa “rappresenta“ allora l’icona? Nelle linee della sua geometria rigorosa, mai estranee o lontane dalle mani e dal cuore di chi le ha dipinte, nei volti penetranti, nel rovesciamento della prospettiva (voluto) ottenuto in modo da focalizzare il “punto di fuga” proprio al “centro” dello spettatore stanno alcuni dei segreti di quest’arte sublime. Solo alcuni.  Altri sono direttamente riversati nell’opera dalla mistica dell’artista che trasmette alla sua creazione tutto un carisma che si può tramandare all’opera d’arte solo se nell’artista ci sono delle condizioni esatte. Quali? Che in esso sia vivo e presente il soggetto che egli si accinge a dipingere.
Che sia il Cristo, l’Angelo, la Vergine o il Santo non fa differenza. L’iconografo può pretendere di creare una vera Icona solo nel momento in cui nella sua anima sono compresenti non le effigi, non le idee, ma la PERSONA che vuole dipingere.

Per questo giustamente Evdokimov parla di teologia della presenza nell’icona. Non di arte rappresentativa, figurativa, arte che vuole raffigurare qualcosa: l’icona vuole rendere presente allo spettatore il mondo dello Spirito e renderlo percepibile a tutti.
Pertanto l’icona è una delle forme d’arte più radicali, “scandalose”, ed estreme che esistono.
Quindi la sfida artistica nell’arte iconografica è immensa e non si può spiegare in un piccolo articolo.

Basterà dire in conclusione questo: l’icona non è un’arte simbolica o simbolista. Si può rappresentare un simbolo in forma bruta o in forma artistica. Ma esso resterà sempre un simbolo, e il suo valore di simbolo non verrà intaccato. Mentre l’icona, sebbene mai priva di un simbolismo intrinseco, non è un simbolo ma uno “specchio” in cui la Realtà stessa dei Mondi sovrasensibili riesce a far cadere qualche rapido barbaglio e rendercelo fruibile, percepibile, riesce a farci sentire la sua immensa Presenza senza mai violare il suo Segreto. Sempre Evdokimov chiamava l’Icona “specchio temporale dell’Eternità”. A ragione la definisce come uno specchio.

La teologia estetica dell’icona mi è sempre sfuggita  e con essa la possibilità di godere di queste opere d’arte finché non ho compreso una cosa: nell’arte profana la rappresentazione e la ricerca del bello è mirata a rappresentare ciò che si oppone alla Luce sia esso una forma e/o un colore. L’arte profana è innamorata di quella bellezza che vive di riflesso e pertanto rappresenta nei sui slanci migliori ciò che assorbe la Luce e non ciò che la sprigiona!
Nell’icona la pretesa artistica e la tensione artistica mira invece a rappresentare la Luce stessa quale essa è.
E con essa la Luce della Verità.

Tutto ciò che ostacola il propagarsi di questa Luce, vi si oppone, o delimita il suo potere trasfigurante tende ad essere soppresso dall’artista del sacro il più possibile. Ciò nei limiti della possibilità rappresentativa che comunque impedisce una rappresentazione perfetta, “diretta” della Luce stessa. La materia stessa limita lo slancio e l’intuizione dell’artista e i suoi mezzi restano goffi e poveri rispetto al suo bisogno di sprigionare questa luce interiore nel mondo.
Diciamo che l’icona si pone come l'”ombra della Luce”; rappresentata al meglio quando l’iconografo ha compiuto il suo capolavoro.

Invece nell’arte profana inconsapevolmente l’uomo raffigura ciò che si oppone alla libera propagazione della Luce e inevitabilmente si ritrova a ritrarre il deifugo, ovvero il vuoto: emerge allora il ritratto tragico, terribile, angoscioso della perpetua caduta nella materia della coscienza. Il ritratto assume i tratti del “volto dell’Abisso”.

Dietro la prospettiva dell’arte iconica è celato il segreto del “ribaltamento” della visione della natura attuale del cosmo e dell’uomo: questa natura intera, che da materializzata e materializzante deve diventare sotto l’influsso di Cristo spiritualizzata e spiritualizzante.
Tutta l’Estetica dell’icona si riassume qui: essa permette, accenna, bisbiglia, e a suo tempo vela, rivela e acconsente la visione della bellezza vera dell’Uomo totale trasfigurato nella bellezza della totalità di Dio.
L’icona è uno sguardo gettato nell’abisso dell’amore di Dio.

IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DELLA FONDAZIONE DI ROMA – di Ettore Vellutini

La Prima impresa: la Fondazione della Roma Quadrata e il Nome Segreto di Roma

Senza tornare sul ricco simbolismo iniziatico rappresentato dal Mito intorno alle origini di Romolo e Remo, simbolismo oggetto di un articolo interessante e ben documentato scritto da Francesco Parisi in precedenza su queste stesse pagine, vorrei riprendere la storia della fondazione di Roma da dove Francesco l’ha lasciata, seguendo l’idea che il racconto della fondazione non è solo un fatto mitico creato dal sovrapporsi di varie leggende, ma la trasmissione di un evento metafisico che, lungi da essere lontano nel tempo, ci riguarda ancora oggi più di quanto potremmo mai immaginare.

21 secoli fa nel 753 a.c. secondo Varone Plutarco Tito Livio, e secondo oltre 200 autori antichi, avviene, durante la festa della pariglia, la Fondazione di Roma. Le pariglie sono le feste dei pastori, ancora una volta nel contesto mitico ritorna il simbolo del pastore come protagonista di una fondazione o più in generale di una Teofania[1]. Ma nello specifico questi pastori che cosa facevano durante queste festività? Il rituale delle pariglie consisteva nel saltare dei fuochi accesi; secondo le tradizioni popolari questi riti servivano a propiziare la fertilità delle capre.
In realtà il rito del salto dei giovani guerrieri attraverso il fuoco è un rito di passaggio antichissimo di tipo misterico e iniziatico, che si può rintracciare nelle più antiche comunità di ceppo indoeuropeo.
Il salto nel fuoco suggerisce l’idea di una preliminare purificazione e di un passaggio necessario, da una parte all’altra di una sponda o di una terra, attraverso l’azione di un fuoco purificatore. Bisogna effettuare un passaggio attraverso il fuoco per dare inizio ad un’impresa di tipo realmente spirituale, bisogna che l’uomo vecchio lasci il posto all’uomo nuovo.

Ma prima di poter dar luogo ad un atto di fondazione a carattere Sacro era necessario sapere quale sarebbe stato il candidato scelto dalla volontà divina, chi sarà chiamato ad assolvere una tale missione Romolo o Remo? Secondo la leggenda Romolo vuole fondare la Città sul Palatino, Remo la vuole fondare sull’Aventino. Per poter decidere chi e dove sarebbe sorta la città, fu interpellato un Augure, il sacerdote specializzato nella tradizione religiosa Etrusca prima e romana poi, all’interpretazione della volontà degli Dei o “auspici”. L’Augure viene sempre rappresentato vestito delle classiche vesti bianche e con in pugno il Lituus, lo strumento sacro utilizzato per dividere il cielo, tracciare i confini del Templum Celeste. Secondo i racconti, i sacerdoti si recarono uno sul Palatino, dove aspettava Romolo raccolto in preghiera e con il capo velato e uno sull’Aventino luogo prediletto da Remo. Gli Augure esaminano entrambi i fratelli, poi volgendosi con gli occhi a scrutare il cielo che avevano preliminarmente diviso, dopo aver pronunciato le parole di un rituale antichissimo, attesero che gli Dei palesassero la loro volontà.

L’augure secondo la tradizione etrusca divideva con il Lituus il cielo in sedici parti, alcune di queste erano fauste, cioè fortunate, altre erano infauste o sfortunate. Quindi il momento, la specie e la direzione che percorrevano gli uccelli nel cielo così diviso, indicavano la forza e il carattere del segno che esprimeva la volontà divina.

Quando il sacerdote osservò il cielo alle spalle di Remo vide gli uccelli arrivare da Sud, una direzione infausta, vide sei uccelli volare nel cielo. Quando l’Augure sul Palatino esplorò il cielo per guardare il segno riservato a Romolo, vide gli uccelli arrivare da nord-est direzione favorevole, contò dodici avvoltoi volare nel cielo, numero e specie propizia e solare per eccellenza, quindi l’eletto per volontà divina, l’Augusto è Romolo.

Il termine Augusto ha un significato molto particolare nella religiosità romana, noi comunemente lo associamo al nome che gli imperatori assumeranno da Ottaviano in poi, ma in realtà il termine Augusto rappresenta una qualità o meglio una particolare dignità riservata ad un luogo o ad un personaggio speciale. L’Augusto indicava un consacrato, cioè un uomo separato dal mondo profano e riempito o meglio abitato dalla presenza di Dio. L’uomo prescelto dal Nume veniva transustanziato, cambiava natura non era più lui, la sua sostanza non era più umana ma simile a quella divina. Questa discesa del divino nell’umano lo rendeva degno di fondare un epicentro di spiritualità, l’Omphalos o centro del mondo.

Ricevuta la consacrazione o la discesa della presenza particolare del Nume nel prescelto, Romolo Augusto deve consacrare, cioè conquistare e separare dal mondo profano, uno spazio sacro riservato alla divinità, dove insediare la presenza Divina. Per questo Romolo si volge verso il colle sacro che ha scelto, il Palatino. Il 23 marzo giorno del tubilustrium, festa della purificazione che seguiva i cinque giorni sacri a Marte, Romolo abbigliato da sacerdote e impugnata una lancia di corniolo la scaglierà in direzione del colle prescelto.
Secondo i miti della fondazione, quando la lancia si conficcò nel terreno divenne un albero vivo: racconta Tito Livio che il corniolo conficcatosi nel terreno mise miracolosamente radici e fiorì, intorno a quell’albero che visse molti secoli i romani costruirono un tempio che fu molto venerato dalla gens quirina. Il corniolo è una pianta caratterizzata da un legno durissimo e ricco di profondi significati simbolici, rappresenta anche un potere nascosto, cioè un potere invisibile, una forza che si manifesta quando le condizioni si fanno adatte. Questo atto drammaturgico, mosso da un intento spirituale, sembra rappresentare un atto di esorcismo, è quindi un atto di conquista tipico dell’espressione di un potere spirituale dal carattere sacerdotale e guerriero.

Poi sempre secondo la leggenda, il prescelto Romolo, manderà a chiamare i sacerdoti etruschi, i Lucumoni, che gli insegneranno i misteri della fondazione di una Città e gli faranno dono dei libri Rituales, i libri sacri che i sacerdoti etruschi si tramandavano gelosamente, libri che custodivano i rituali che avevano il potere di provocare la discesa della divinità nel luogo di elezione.
La trasmissione dei libri, rappresenta simbolicamente, il passaggio della Sapienza Sacerdotale Etrusca a colui che avrebbe fondato un nuovo epicentro di spiritualità.
Romolo si presenta come il rinnovatore del precedente ciclo di manifestazione, ciclo rappresentato dai sapienti etruschi, che stava andando incontro al suo ineluttabile tramonto per lasciare il posto al nuovo ciclo rappresentato da Roma.

Asceso sulla cima del Palatino, Romolo si volge verso Albano, lì dove sorgeva l’Antico Tempio di Giove, perché vuole ottenere l’Augurium, cioè la consacrazione del Palatino attraverso la traslazione della presenza divina di Giove da Alba Longa, la città fondata dal suo Avo Ascanio, dove sorgeva il Tempio di Iupiter Latiaris, massima divinità dei latini. A questo punto, rivolto verso la casa di Giove, il futuro Re di Roma traccia un solco, delimitando lo spazio sacro, e lo fa utilizzando un aratro trainato da due buoi, più esattamente da un Bue e da un Vacca, maschio e femmina, uno bianco e uno nero.

L’aratro era forgiato nel Bronzo, perché l’aratura del Re non fu l’atto di un contadino ma quella di un sacerdote che fa il Sacro.
Circoscrivendo il Pomerium Romolo alza l’aratro in prossimità di tre porte, solo tre porte per entrare ed uscire, il resto è interdetto, invalicabile.
Il Pomerium tracciato da Romolo ha una suggestiva forma trapezoidale, quasi fosse un contenitore, una coppa che aveva lo scopo di accogliere la presenza di Giove e il suo Augurium come in un contenitore, in un’arca pronta a custodire il mistero della Presenza Divina.

Fatto questo, crea e consacra la città, di fatto fonda un Tempio.
Plutarco scrisse di questa fondazione con dovizia di particolari, vale la pena citarlo per intero nella sua descrizione di quel momento: “Per prima cosa Romolo chiamò dall’Etruria degli esperti, che gli spiegarono e insegnarono minuziosamente il cerimoniale prescritto dai sacri come se si trattasse di un rito magico. Quindi fu scavato un fosso rotondo, del perimetro dell’attuale Comizio, e vi furono riposte le primizie di tutte le cose sancite dalla natura come necessarie alla vita umana. Poi ciascuno portò una manciata di terra del paese dal quale proveniva, e la gettò tra le primizie confondendole tutte assieme. Indi, preso il fosso, che designano con il nome usato anche per l’Universo, e cioè mundus, come centro di un cerchio, tracciarono in giro il perimetro della città”[2]. Quindi da questo cerchio traccerà un perimetro perché quello è l’Omphalos, ombelico al centro del mondo, il centro in cui discende e poi si irradia la presenza divina, luogo dove la Divinità va ad abitare, immagine del Cosmos che si contrappone al Caos, è il Tempio.

È a quel punto che Romolo pronuncia i Nomi segreti della Città. Abbigliato come un sacerdote etrusco impugnando il Lituus compie l’atto Sacro per eccellenza “Suona e Canta”. Romolo portando alle labbra il Lituus suonerà la nota sacra, perché il Lituus non era solo un bastone sacerdotale necessario a dividere cerimonialmente lo spazio celeste, ma era anche uno strumento musicale che emetteva delle note, e lui suonerà delle note misteriose dal Palatino pronunciando e cantando il Nome profano della Città Roma, nome che tutti conosciamo, poi il Nome Sacro ed infine il Nome Misterioso, quel nome che era vietato pronunciare o rivelare.

Quando questo nome si poteva pronunciare? Soltanto una volta l’anno, quando si celebravano i fasti della ricorrenza della fondazione della città, tra i suoni dei cembali, il battere incessante dei tamburi ed il caos prodotto dal popolo Romano acclamante il Rex Sacrorum, il Pontefice massimo che pronunciava sicuro di non essere ascoltato da nessuno, il Nome Misterioso di Roma.


Questo rito ricorda da vicino il medesimo rituale che il Grande Sacerdote svolgeva a Gerusalemme durante la festa dello Yom Kippur, festa della purificazione, giorno in cui tra il clamore assordante dei cembali e del popolo festante veniva pronunciato il Gran Nome segreto del Tetragrammaton, il nome di Dio di quattro lettere.
Perché Roma aveva un Nome segreto? Perché il Nome era considerato il luogo del Nume, rappresentava la presenza reale e divina dell’intelligenza celeste che abitava e vivificava la Città Tempio. Conoscere il Nome del Nume tutelare di una città, dava la possibilità di entrare in relazione con la divinità stessa; questa conoscenza metteva in grande pericolo l’esistenza stessa dell’Urbe. Questa concezione, che fa trapelare la conoscenza di una ben precisa dottrina teurgica sull’uso dei nomi divini, viene tramandata dalla storia romana attraverso il velo del mito nel racconto della guerra contro i Veiensi.

Roma conobbe tra i primi e più acerrimi nemici alcune città stato etrusche e tra queste la fiera e potente città di Veio. Veio combatterà una guerra contro la nascente potenza romana che durò trenta anni. Stranamente il racconto della guerra contro Veio ha più di qualche punto in comune con l’Iliade di Omero. Ma come i romani ottennero la vittoria contro gli acerrimi nemici Veiensi? Si racconta che il console Marco Furio Camillo ordinò di scavare un tunnel sotto le mura, un tunnel che sbucasse sotto il tempio di Giunone, Dea protettrice di Veio. Scavato il passaggio mandò un gruppo di sacerdoti e soldati a rapire la statua della Dea onde portarla in solenne processione a Roma e promettendo alla Dea stessa che se avesse abbandonato Veio nelle mani romane, gli sarebbero stati resi grandi onori e sarebbe entrata a far parte degli Dei protettori della Città. Sempre secondo la leggenda Giunone si compiacque dei romani e abbandonando la città ne decretò rapidamente la sconfitta.

Questa storia rappresenta, molto probabilmente, una cerimonia che i romani svolsero dopo aver scoperto i nomi misteriosi con cui invocare la dea tutelare della Città, costringendola in qualche modo a lasciare la sua difesa. Queste cerimonie, in cui i sacerdoti romani evocavano in virtù dei Nomi Sacri le divinità delle città da assediare, erano abbastanza diffuse nella ritualità guerriera romana; ci sono arrivate testimonianze delle medesime cerimonie svolte prima di attaccare Cartagine, quando il Generale Scipione cantò il carme rituale sotto le mura della città assediata, ed in diverse altre occasioni.

Anche nella tradizione segreta di Israele si diede grande importanza alla scienza segreta del Nome e dei signori del Nome, i Baal Shem, conosciuti in occidente attraverso le traduzioni dei primi testi cabalistici apparsi in Andalusia introno al XII secolo. È per questo motivo che il nome di Roma sarà custodito in grandissimo segreto.
Ci fu un tribuno della plebe, Valerio Sorano, che rivelò il nome segreto e per questo venne crocefisso, proprio perché una tale profanazione metteva in pericolo l’esistenza stessa della Patria.

Quindi tracciare e fondare la città Tempio, la Roma Quadrata, per accogliere la Divina presenza del Dio fu la prima impresa di Romolo, a cui seguirono altre due imprese la traslazione del fuoco Sacro e la divisione dello spazio e del Tempo.
“Roma è così il “tempio”, la sede terrena di un nuovo Centro di irradiazione, il luogo segreto dove si trasferisce la Sapienza Arcaica, ritiratasi dagli antichi centri iniziatici delle civiltà in fase di sgretolamento, dalle “terre inaridite”, per approdare con Enea in una nuova terra, la “terra vergine”, la feconda “terra nera” o “terra di Saturno”, l’Italia, la “terra dei tori”, per un nuovo giorno di manifestazione. Romolo, figlio del Sole (Ilion), portatore del Lituus, lo scettro etrusco, è il “Raggio di Sole” che feconda la terra nera di Saturno, il primo Re d’Italia, il fondatore di Roma.”[3]


[1] cfr. Commento al Vangelo di Matteo di Origene, Ed. Città Nuova.
[2] “Vita di Romolo” Plutarco.
[3] “La Vergine dell’Infinito” Alessandro Benassai

IL MITO DELLE ORIGINI DI ROMA – di Francesco Parisi

Uno dei più affascinanti, complessi ed elaborati miti della storia antica è senza alcun dubbio quello che si riferisce alla fondazione di Roma.
L’antica tradizione religiosa romana infatti non si limita a descrivere gli eventi contemporanei con il mitico solco, il famoso pomerium, tracciato da Romolo il 21 aprile del 753 a.C., bensì ha consegnato alla memoria perenne anche tutta una serie di racconti sulle vicende che precedettero la fondazione della Città Eterna e dietro il cui ricchissimo velame di simboli si nascondono i dettami e le basi della dottrina esoterica di Roma.

È certamente molto nota la leggenda secondo la quale Romolo e il fratello gemello Remo furono i discendenti per linea di sangue di Enea, nipote di Priamo e principe troiano, il quale, in fuga dalla distruzione di Troia per mano degli Achei, capitanati dal Re di Micene Agamennone, approdò in Italia per poi stabilirsi nell’attuale Lazio.
La guerra di Troia, narrata nell’Iliade di Omero, rappresentò un vero e proprio scontro di civiltà e di concezioni religiose. Nell’Iliade venne scritto l’ultimo capitolo di una guerra combattuta per secoli in Europa e in Asia Minore e che vide lo scontro tra una visione guerriera e maschilista propria dei popoli invasori indoeuropei ed una concezione sacerdotale, basata sul culto della Grande Dea tipica delle popolazioni autoctone e preesistenti.

Questa tensione bipolare, che il fondatore dell’Associazione Archeosofica, Tommaso Palamidessi, definisce nel Quaderno “La Costituzione Occulta dell’Uomo e della Donna” come il dualismo della manifestazione creativa, costituisce la dialettica dell’universo, una delle leggi fondamentali che ne regolano l’esistenza. Si pensi come ogni cosa appaia basata su una struttura bipolare: il giorno e la notte, il maschio e la femmina, il caldo e il freddo, il Bene e il Male, tutto è organizzato secondo un’alternanza che richiama il movimento dei piatti di una grande Bilancia Cosmica. Ogni avvenimento oscilla ora verso un estremo ora verso un altro e, come insegna la fisica, è proprio questa differenza di potenziale che genera l’energia e lo sviluppo della vita.
Presso le mura di Ilio, altro nome della città di Troia, si scontrarono due opposte visioni del mondo, due principi cosmici: uno solare e l’altro lunare.

Gli Achei, antenati dei Greci, furono i portavoce di una simbologia olimpica, uranica, solare e maschile. Le divinità principali del loro pantheon erano tutte maschili e loro stessi si ritenevano un popolo di guerrieri. Gli dei degli Achei abitavano sull’Olimpo, un regno immaginario e sopraelevato rispetto al mondo degli uomini mortali. I loro riti di iniziazione comunitari erano basati su cerimonie guerriere e violente. In generale, la loro concezione religiosa collocava il mondo spirituale esterno a quello mortale, quasi irraggiungibile. Una cittadella fortificata espugnabile sono dall’eroe-iniziato che in virtù di gesta epiche avrebbe potuto essere annoverato tra i semi dei, le stelle fisse del cielo. Probabilmente il mito di Ercole incarna al meglio tale idea.

I Troiani, viceversa, erano gli eredi di un culto lunare e tellurico. La leggenda sulle loro origini li identifica come i discendenti di Elettra, una delle sette Pleiadi, ed afferma che la città venne fondata dall’eroe Ilio dopo che egli trovò nelle profondità della terra una grande statua di legno che ritraeva Pallade, altro nome di Atena, Dea della Sapienza. I culti troiani si basavano su una spiccata vocazione sacerdotale e le loro divinità avevano attributi femminili e ctoni, per cui i nemici greci le associarono a Demetra e Venere. Erano scure in quanto associate alla Grande Madre Terra (come nel caso di Iside nell’Antico Egitto o delle Vergini Nere della cristianità). L’attributo scuro (ctonie) si riferisce a qualcosa di ancora non manifestato, custodito nel ventre della terra in attesa di venire alla luce. Il mondo spirituale, pertanto, andava ricercato nel profondo della propria interiorità, al fine di essere riscoperto e portato alla luce.

Dallo scontro di queste due visioni, circa 500 anni dopo, nascerà Roma erede e crogiuolo di entrambe le vie iniziatiche: quella guerriera e quella sacerdotale. I simboli di questa leggendaria nascita lo sottolineano in modo inequivocabile.
Il mito di Enea sottolinea come il Fuoco della Sapienza Arcaica, che aveva abbandonato gli antichi Templi Iniziatici, si trasferì a Roma per essere qui custodito e rinnovato, per poi essere diffuso nel mondo sino all’avvento del Cristianesimo. È il fuoco che Palamidessi nel 3° Quaderno di Archeosofia, “Gli Scopi dell’Ordine Iniziatico Loto+Croce”, definisce discontinuo e ardente simbolo di una tradizione iniziatica che si manifesta, a beneficio dell’evoluzione umana, in epoche e luoghi differenti ritirandosi nel suo epicentro quando i tempi non sono maturi.
Alessandro Benassai, riguardo l’etimologia del nome Enea e del suo ruolo fondamentale per l’apertura di un nuovo ciclo nella storia dell’umanità, così scrive nel testo “Il Tempio dei Misteri”:
Ain-eia, l’Eroe Troiano, fu messo in relazione con Ian-us, l’Esistente, arcaica divinità italica solare (Iuno = Sole) il cui culto si associava a quello di Iana = Luna (Diana). Jano è il governatore dell’inizio (e della fine) delle cose (da Giano=gennaio, il primo mese dell’anno), porta (Iano = Ianua) e guardiano delle porte, e passaggio (ianum), arco (ianus), arcata della porta del tempio. Iano ha per emblema la Chiave con la quale apre e chiude le porte dell’Iniziazione, Ianua Inferi e Ianua Coeli, le Porte Solstiziali: la Porta dell’Uomo e la Porta degli Dei”.

Enea, secondo il mito, portò con sé il Palladio ed il Fuoco Sacro di Troia che vennero poi tramandati ai suoi discendenti. Essi governarono prima la città di Lavinia, poi quella di Alba Longa e infine Roma il cui primo Rex, Romolo, istituì il collegio delle Vestali, le Donne Sacerdotesse Iniziate alla custodia del Sacro Fuoco. Il Tempio delle Vestali, la cui fondazione alcuni miti attribuiscono anche al re Numa Pompilio, aveva una forma circolare, simboleggiante l’Universo e la Madre Terra Ctonia. Nel centro del cerchio era custodito il Fuoco Perenne ed il “cerchio col punto” era, per molte culture (simbolo di Ra presso gli antichi egizi), la rappresentazione della potenza divina (il punto) che si manifesta nell’Universo creato (il cerchio) generando la vita, nonché emblema dell’Oro Alchemico.

Enea fu il ponte tra l’antica tradizione iniziatica, che ormai aveva concluso il suo ciclo, e quella che sarebbe nata dalle sue ceneri. L’eroe troiano abbandona Troia in fiamme unitamente agli amici più fidati, portando sulle sue spalle il padre Anchise e, per mano, il figlioletto Ascanio. Il mitico troiano reca con sé cioè il passato e il futuro. Anchise non arriverà mai a destinazione, morendo nei pressi dell’attuale Trapani. Al pari di Enea e in nello stesso periodo, Ulisse, fautore del celebre inganno che decretò la distruzione di Troia, intraprende anch’egli un viaggio, ma resterà solo e senza amici, esule per dieci lunghissimi anni a causa delle sue azioni e della sua intelligenza maledetta (simbolicamente sulle spiagge di Troia, Laocoonte, l’unico sacerdote e veggente troiano che ha compreso il tranello del cavallo di legno, viene divorato da due serpenti giganti simbolo dell’intelligenza orientata verso il male).

La tradizione riporta che Enea, una volta approdato in Lazio, come segno del favore divino e della madre Venere, rinvenne 30 porcellini figli di una scrofa dal colore bianco immacolato. Il numero 30, i giorni di un mese, è associato al ciclo lunare, così come il colore bianco è simbolo dell’antica tradizione ieratica e lunare. Nel Lazio Enea fonderà Lavinium in onore della moglie Lavinia figlia di Latino, eponimo del popolo che abitava quelle terre (i Latini erano organizzati in una confederazione di 30 città) e da cui Enea ebbe un altro figlio, Silvio Julo.
La parola Lazio deriva dal latino latere che significa “occultare, nascondere”, la terra nera che Virgilio definisce nell’Eneide (poema che narra proprio delle vicende dell’eroe troiano) con il termine di Saturnia Tellus o terra di Saturno. Nelle viscere di questa terra Enea nasconde il Fuoco di Troia, in attesa del futuro parto con la fondazione di Roma. Tale Fuoco è il simbolo della Tradizione Primordiale.  Palamidessi nel 1° quaderno della collana archeosofica, la definisce come “Tradizione universale e primordiale dalla quale sono sgorgate tutte le religioni e di cui le filosofie sono un’espressione minorata e parziale, che esprimono tutto il travaglio dell’umanità per avvicinarsi all’unità religiosa nel corso di migliaia di anni ad oggi. Questa Tradizione è costituita da un insieme di principi permanenti e trascendenti, la cui origine è solo in parte umana, e non sono suscettibili di evoluzione, appunto perché principi permanenti e trascendenti. Questa Tradizione è qualcosa che è stato trasmesso da uno stato anteriore del genere umano al suo stato attuale”.

Ascanio, figlio di Enea e della principessa troiana Creusa, 30 anni dopo (ritorna il numero 30) fondò la città di Alba Longa, dal latino albus che significa “bianco”, colore associato alla luna. Successore di Ascanio fu il fratello Silvio e i Re che governarono Alba Longa e le 30 città della confederazione dei “prischi latini” di cui essa era la capitale, sino alla fondazione di Roma, furono in totale 12.
Il 12, simbolo del ciclo perfetto, è un numero tipicamente solare: 12 sono gli Apostoli attorno a Cristo-Sole di Giustizia, 12 i Cavalieri di Artù, 12 i segni dello zodiaco o case solari, 12 i mesi dell’anno solare.

A premessa della nascita di Roma, Alba Longa appare come la città sacra, il regno dei 12 Re, sulle 30 città della confederazione. Essa è il simbolo di una realtà in cui la via solare e guerriera si è fusa con quella lunare e sacerdotale. Ma una nuova scissione è alle porte quando il Re Numitore (il nome di questo sovrano reca in sé la stessa radice del futuro Re-Sacerdote Numa Pompilio) viene spodestato dal fratello Amulio che fa uccidere tutti i suoi figli maschi e condanna l’unica figlia femmina, Rea Silvia, a prendere i voti come Vestale, in modo da impedirle di generare. Tuttavia, continua la leggenda, il Dio Marte si unisce alla Vestale e da questa unione nascono i gemelli Romolo e Remo. Marte era il dio della guerra mentre Rea Silvia incarna l’ideale sacerdotale. Anche in questo caso, si manifestano un principio guerriero ed uno ieratico, rappresentato dal Sole fecondatore della Terra Vergine. 

Il mito afferma che Amulio, saputo del parto di Rea Silvia, condanna a morte la donna e consegna a un servo i gemelli affinché siano uccisi. I piccoli, grazie alla compassione del servo, vengono abbandonati in una cesta sul fiume Tevere. Successivamente rinvenuti e allattati da una lupa, vengono nutriti da un picchio ai piedi di un albero di fico.

Ripudiare un figlio o un parente era un atto gravissimo all’interno delle antiche società delle popolazioni italiche, e in genere nel mondo antico, dove la famiglia costituiva un vincolo indistruttibile, una realtà sovraordinata a cui le singole coscienze si dovevano subordinare. Romolo e Remo sono il simbolo della nascita di una coscienza rinnovata, capace di individualizzarsi dal mare della storia, in grado di portare sulla terra un nuovo ordine, aprire il ciclo di un nuovo mondo. Al ripudio segue sempre un ordine di morte, si pensi a Mosè, abbandonato anch’egli in una cesta sul fiume Nilo, nel momento in cui l’ordine del faraone era quello di uccidere tutti i figli maschi, oppure a Gesù che l’ordine di morte di Erode non riuscirà a colpire. La condanna a morte è dunque il simbolo della resistenza e dell’opposizione che il vecchio mondo e la personalità oppongono al risveglio della coscienza, all’aspirazione al sacro e alla riscoperta dell’individualità. Ci si trova di fronte a quello che l’esoterismo e la Tradizione Archeosofica, con Palamidessi, definisce come Guardiano della Soglia “una delle più minacciose ed importanti esperienze di chi si cimenta nei lavori iniziatici, che gli antichi Filosofi dell’Ermetismo definirono «Fatiche di Ercole», giusto l’insegnamento esoterico della Mitologia greca”. Per coloro che vogliono approfondire questa tematica consiglio la lettura del testo di Tommaso Palamidessi “I Guardiani delle Soglie e il Cammino Evolutivo”.

Il Fiume Tevere, come il Nilo in Egitto o il Gange in India, e le acque in generale sono un simbolo dell’inconscio, personale e collettivo, dal quale bisogna emergere con forza e coraggio. È infatti necessario vincere, come scrive Palamidessi, quelle “forze oscure del cielo e della terra, talora nascoste nell’inconscio”. Sono anche il simbolo di un passaggio fondamentale per l’inizio di una nuova vita spirituale. Si pensi al battesimo d’acqua che il Cristo inaugura nel fiume Giordano.

Romolo e Remo vengono allattati da una lupa e da un picchio, entrambi animali sacri a Marte, ai piedi di un albero di fico. Questa pianta nell’Antico Testamento e nel Nuovo, presso gli Egiziani e numerosissime altre culture, ebbe un significato ben preciso e fu simbolo della Sapienza Divina. Romolo e Remo crescono all’ombra della Sapienza, della Tradizione Arcaica Primordiale, che in quel momento è tornata a manifestarsi per garantire l’evoluzione dell’umanità.
Romolo e Remo, al pari di Abramo che trionfò sui 7 Re di Edom, dell’avo Enea che sconfisse i Rutuli e di molti altri eroi, dopo aver affrontato una guerra personale e sacra riceveranno un premio. Si tratta del ritorno sul trono del legittimo Re Numitore, emblema del Principio Sacro e Ordinatore.

Presso gli antichi sacerdoti e iniziati della Roma arcaica, il ricchissimo simbolismo della leggenda iniziatica delle gesta di Romolo e del fratello Remo e l’uccisione di quest’ultimo, erano studiati e meditati, applicati nella pratica di un’ascesi sapienziale quotidiana, riservata a pochissimi eletti. L’uccisione di Remo da parte di Romolo, condizione necessaria per la fondazione di Roma ha, tra i vari simbolismi, il significato di auto-superamento, in virtù di un principio spirituale nuovo e superiore rappresentato da Roma.
La leggenda continua, ricchissima di simboli e significati esoterici, come la scelta del luogo e del nome di Roma, l’auspicio dei numeri 6 e 12, la fondazione della Roma quadrata e la scelta del suo Nome Segreto…ma questa è un’altra storia!!

L’ENIGMA DELLE VERGINI NERE – di Evelina Lazzarin

(seconda parte)

Le statue delle Vergini Nere, opere di arte sacra, si rifanno tutte a un unico Archetipo, all’unica Vergine Nera che è portatrice di un preciso messaggio, che può essere trasmesso al pellegrino se si accosta a una di queste statue con la disposizione d’animo corretta.

Se noi confrontiamo le diverse statue, possiamo facilmente trovare diversi punti comuni essenziali, oltre, ovviamente, al colore nero. Questi punti in comune non sono certamente né casuali, né arbitrari.

● Quasi tutte le statue, ad eccezione di pochissime che sono rappresentate dritte in piedi, rispondono al tipo della “Vergine in Maestà”. Questo punto è assai importante per comprendere il messaggio che la statua ci vuole trasmettere, esso corrisponde a un’idea ben precisa della Vergine che rifulgeva nel Medioevo ed era ben diversa da quella, per esempio, che poi possiamo riscontrare nel Rinascimento. Questo tipologia, inoltre, si collega, come poi spiegheremo, al fatto che le statue erano delle statue reliquiari, ossia custodia e supporto di reliquie sante.

● Tutte le statue autentiche che rispondono alla tipologia sacra delle Vergini Nere appaiono tra il X e il XIII secolo, in particolare tra il X e XI secolo; se poi ce ne saranno altre, è come quando si parla dei romanzi del Graal, quelli autentici si riferiscono all’XI-XIII secolo. E’ un periodo relativamente breve che corrisponde al passaggio dal buio del “mille e non più mille” alla rinascita successiva.

●  Nella rappresentazione statuaria della maestà della Vergine, l’accento è posto su Nostra Signora: è Lei che sembra avere un’importanza essenziale, mentre il Cristo sulle sue ginocchia appare in secondo piano. A questo fatto non va attribuito un significato di maggior o minore valore, ma ciò ha un senso che poi scopriremo. In seguito, queste statue saranno ricoperte con abiti cerimoniali, da cui solo la testa del Cristo sarà visibile. Inoltre, si può vedere che il Figlio è meno elaborato, tanto nel corpo, quanto nel viso. Anzi, a proposito del viso, assai raramente sarà quello di un bambino,  assolutamente mai quello di un poppante, come apparirà nel Rinascimento, ma è invece un volto che esprime la pienezza del Cristo, sebbene ancora in qualche modo nascosto, velato, non ancora completo ai nostri occhi.

Si stabilisce un percorso triangolare attraverso la statua: dal meditante alla Vergine, dalla Vergine al Cristo e dal Cristo al meditante. Questo fa pensare alla rappresentazione simbolica dell’uomo che corrisponde all’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti simboleggiano uno il Cielo e l’altro la Terra: l’uomo dipende da entrambi e partecipa di uno e dell’altro. Secondo questa idea, la Vergine è rappresentata come il ponte, il canale che consente la comunicazione tra la Terra e il Cielo e tra l’uomo terreste e l’Uomo Celeste.

● Tutte queste statue sono di legno e mai scolpite nella pietra. Ci possono essere diversi legni usati, ma c’è una certa preferenza per la quercia, l’acacia, o anche per il cedro, quale testimonianza di origine orientale. Nella maggior parte dei casi il colore è apposto incollando al legno delle bandellette di tessuto. Per molto tempo questa fasciatura ha impedito di individuare lo spazio nascosto in cui era collocata la reliquia. Per contro, ha pure consentito una certa forma di conservazione della statua e probabilmente pure di rinnovarne il colore.

● I colori utilizzati sono sempre gli stessi: nero per il viso e le mani, rosso, blu e verde per i vestiti e gli accessori. Ci riferiamo qui ai vestiti scolpiti, non a quelli di tessuto di cui la statua sarà tardivamente rivestita, anche se questi talvolta rispetteranno tali colori fondamentali. In certe statue troviamo un blu-verde mescolato nel vestito. Le restaurazioni successive spesso hanno purtroppo stravolto l’originale.

● Le statue hanno tutte pressappoco le stesse dimensioni. Il loro aspetto naturale richiama un’apparenza piramidale. Le dimensioni non sono grandi: circa 70 cm di altezza su una base quadrata di 30×30 cm.

● Trasmettono tutte l’impressione della fecondità, di un potere datore di vita, tema che ritroviamo spesso nelle leggende di rinascita che sono loro collegate. Quest’idea sembra sia veramente proiettata dalla posizione del Cristo che appare seduto sulle ginocchia della Vergine, e non in braccio come nella statuaria religiosa classica. Il potere di donare la vita è certamente una costante attribuita da tutti i culti pagani all’elemento femminile, tuttavia qui non si tratta di una fecondità naturale, carnale, perché qui l’idea è quella della nuova nascita sul piano spirituale, attuabile grazie all’Incarnazione del Verbo che si fa Uomo grazie alla Vergine.

● Le statue più antiche, quelle di cui è certa l’autenticità, mostrano il Cristo Maestro, in quanto le posizioni delle sue mani, delle dita e tutta la sua apparenza, indicano che Egli ci vuole offrire un insegnamento. E’ quindi ovvio che non sia rappresentato con il viso da bambino. Gli attributi di potere, come il globo terrestre, sono delle aggiunte più recenti. Qualche volta lo stesso Cristo originale è stato sostituito con un altro più conforme al gusto del momento, come a Montserrat. Questa sostituzione frutto d’ignoranza è quasi un sacrilegio perché stravolge il senso del messaggio che la statua ci vuole offrire.

Montserrat

● Tutte le statue sono poste in luoghi di culto precedenti al Cristianesimo: sono situate vicino a una pietra, a una sorgente o a un pozzo sacri per tradizione antichissima. Il luogo, che la leggenda indica come prescelto dalla statua stessa, è quasi sempre un luogo elevato, un altare, una collina, che in origine era indipendente dal centro abitato e che si popola grazie al pellegrinaggio verso il luogo stesso. Certamente si possono trovare riferimenti alla successione del culto della Vergine a quello pagano e antichissimo della Terra Madre o della Dea Madre, perché il Cristianesimo è venuto a completare, non a distruggere, come dice Cristo stesso, quella che era la tradizione precedente. Il riferimento alla “vergine che deve partorire” si ritrova nel Druidismo e anche nella tradizione medio-orientale. Tuttavia se è vero che ci sono delle analogie, è altresì vero che ci sono delle fondamentali differenze, come se è vero che nelle religioni misteriosofiche antiche si parlava della resurrezione del dio patrono del culto e di chi vi si assimilava, simile, ma ben diversa, è la Resurrezione non mitica, ma storica e metastorica, del Verbo incarnato.

● Originariamente queste statue nei santuari erano collocate dentro la cripta, anche se spesso, in seguito, saranno spostate.

● Le leggende sulla nascita del suo santuario e i miracoli attribuiti alla Vergine Nera hanno caratteristiche simili. Tutte le leggende che concernono la nascita del santuario si riferiscono, direttamente o indirettamente, all’Oriente. Questo elemento orientale figura quando si dice che fu costruito per volontà di un sovrano arabo, o di un crociato che Ella aveva salvato da un pericolo mortale, o perché la statua stessa sarebbe giunta dall’Oriente, non scolpita da mano d’uomo ecc.

Per quanto concerne le leggende dei miracoli compiuti dalla statua, essi si possono suddividere in tre principali grandi categorie:

a)il miracolo della resurrezione temporanea di un bambino morto prima di aver ricevuto il Battesimo. Il bambino, presentato alla Vergine, ritornerà in vita per il tempo necessario, ma non di più, a permettergli di ricevere l’unzione del battesimo e quindi di essere lavato dal peccato originale. Il battesimo è la fondamentale iniziazione cristiana e senza di esso si è dannati. Questo miracolo, tipicamente attribuito alla Vergine Nera, fa capire che tramite essa è offerta la possibilità di accedere alla prima e fondamentale purificazione e apertura della coscienza.

b) il tema centrale del secondo gruppo di miracoli è quello della liberazione. La leggenda è praticamente sempre quella di un Crociato, o di un gruppo di Crociati, di un viaggiatore o di un pellegrino, imprigionati in una cella. L’oriente in cui nasce la luce appare ancora qui perché la cella è situata spesso in Egitto, terra delle più antiche iniziazioni conosciute per la nostra civiltà. La prigione può essere rappresentata  tanto come un luogo, quanto come una situazione interiore di angoscia da cui non si può essere liberati se non con un intervento “esterno” inaspettato, ma sperato. Sicuramente  questa prigione è l’emblema di quello che è l’uomo immerso nel quotidiano di una vita materiale ed effimera. L’angoscia è il sentimento del suo essere interiore, se appena questo non è del tutto morto, perché è inaccettabile per la vera natura dell’uomo, che è spirituale, immergersi nei limiti di una vita fasulla, che più che altro è sopravvivenza. L’angoscia traduce l’idea di una “mancanza”: l’uomo ordinario può anche avere tutto, casa, lavoro, moglie, amante, figli, denaro, macchina, ma non ha niente, in un attimo nulla di questo resta.

La presenza di un travaglio è comunque indice che la coscienza non è talmente immersa nel mondo sì da esserne annientata e quindi c’è anche la speranza, la speranza di una salvezza, di una completezza ancora non risolta. La liberazione corrisponde alla presa di coscienza di una Realtà diversa, è come un risveglio per cui le cose di prima non sono più, come quando uno dorme, sogna, ha l’incubo, ma si sveglia e se ne accorge, si accorge che non era vero. E’ però necessario un intervento, perché da soli è difficile, se non impossibile, svegliarsi.

Infatti, come se l’immagine del caos e dell’oscurità che è associata alla prigionia non fosse sufficiente, il prigioniero è sovente immerso in un sonno profondo, simile a una temporanea morte. Nella leggende del miracolo della liberazione, la Vergine Nera appare circonfusa da una Luce vivissima percettibile solo al prigioniero. Ricorre immediato il raffronto con molte apparizioni del Graal, in particolare quella a Giuseppe d’Arimatea (in Robert de Boron) prigioniero in una torre, dopo che Cristo è risorto e lui è stato incolpato della sparizione del suo corpo.

L’intervento salvifico, frutto della Speranza, è la grazia divina, la grazia del Padre che nel Supersacramento del Graal scende sull’Iniziato e lo irrora, ma evidentemente a esso si accede grazie all’apertura della Porta stretta che avviene tramite la Vergine Nera. La Vergine ha in sé la Luce, la Luce che è la vita degli uomini e alla quale possiamo accede unicamente se rinasciamo da acqua e da spirito, se, in certo qual modo, rientriamo nel ventre della Madre.

Questo chiedeva Niccodemo al Cristo, tuttavia si tratta di rientrare non nel ventre della madre terra, della  madre natura decaduta, degenerata, – fatto  che comunque avviene quando si muore “naturalmente” – bensì in quello della Madre Celeste, pura e radiosa sin dal principio e sino alla fine. Il prigioniero, o morto che dire si voglia, una volta liberato dall’intervento salvifico, ritrova la Luce e la vita e diviene strumento nel mondo dell’azione della Vergine Nera, tramite la costruzione di un santuario a lei dedicato. Questo è il nucleo della leggenda, che può presentarsi con varie varianti, ma che trasmette sempre l’idea del passaggio dalle tenebre, dalla morte, alla luce e alla vita, passaggio realizzabile per l’intermediazione della Vergine Nera.

c) il terzo gruppo corrisponde alla storia di un navigatore in pericolo nel mezzo di una tempesta: si ritroverà sano e salvo approdando al porto della salvezza, trasportato magicamente da un luogo all’altro, dopo aver invocato l’assistenza della Vergine Nera. La Vergine invocata non deve necessariamente corrispondere a quella di un santuario in riva al mare. Talvolta si trova addirittura sul monte, come a Rocamadour. La tempesta è simbolo analogo a quello della prigionia e dell’angoscia mortale, rappresenta la coscienza in balia dell’oscurità dell’inconscio personale e collettivo, in preda alla schiavitù delle passioni e dell’emotività: non si soccombe alla tempesta del caos solo se ci si butta nel grembo della Vergine per ritrovare lì la nostra origine, il punto inizio, il vero Archetipo trasmutatore assimilandoci al quale, unicamente, è possibile superare la malattia, la morte, la corruzione che è insita nell’umanità decaduta.

Accanto a questi tre gruppi principali, si trovano miracoli di natura simile, ma più specifica, propri di uno o l’altro santuario. In questi racconti si può ravvisare la fusione di tradizioni locali con l’insegnamento collegato alla Vergine Nera. Questi miracoli concernono per esempio la parola restituita a un muto, l’udito riacquisito a un sordo, la vista resa al cieco, la mobilità restituita al paralitico ecc. Sono miracoli che corrispondono al ritrovamento di un senso perduto, la restituzione all’umanità di una sua integrità e realtà persi. Evocano le parole del Vangelo di Marco 8,18,  dove si parla di occhi che non possono vedere e orecchie che non possono intendere.

● Nella storia del santuario compare sempre la presenza di Benedettini, Circestensi, Ospitalieri o Templari e, in pratica, essi sono collocati lungo le strade dei grandi pellegrinaggi. Il ruolo degli ordini monastici fu assai importante per la rinascita dopo il Mille e la loro presenza non sorprende. In particolare, ricordiamo come San Bernardo, il fondatore della regola dei Templari, sia particolarmente devoto alla Vergine alla quale riserva attenzione speciale, tanto che Dante, nella Divina Commedia, lo pone quale intermediario tra lui e la Vergine, grazie alle cui preghiere finalmente potrà avere la visione di Dio.

Ricordiamo poi come il Gran Maestro dell’Ordine del Tempio e il Siniscalco, Jacques de Molay e Geoffrey de Charnay, domandarono solo di morire con il volto rivolto alla Vergine.  La presenza dei Templari è indice di una particolare cavalleria tipica del monaco-guerriero che combatte la “guerra santa”, che è un vero e proprio metodo ascetico con il quale è possibile giungere alle più alte vette spirituali, alla rivelazione cui ci introduce la Vergine Nera. Questo tema è ancora e similmente tipico dei romanzi del Graal.

La maggior parte delle Vergini romaniche del X-XIII secolo sono delle Vergini assise  del tipo detto in maestà. In quest’epoca la Vergine era guardata, tanto dallo spirito popolare, come da quello monastico, soprattutto come la Madre di Dio (dogma del Concilio di Efeso – 431 – in  cui furono anche fissati i parametri iconografici per la rappresentazione della Vergine) e soprattutto come il Trono della Saggezza”, espressione sovente usata da San Bernardo nelle sue opere mariane. E’ Lei che porta sulle sue ginocchia il Re del Mondo, la sorgente e l’origine di tutte le cose e dunque Ella è il Trono vivente della Saggezza e porta sulle sue ginocchia la Saggezza stessa.

Le rappresentazioni della Vergine in maestà procedono tutte da uno stesso tipo in cui si palesa la duplice funzione di Nostra Signora, quella di portare sulle sue ginocchia il Dio incarnato che darà alla luce nel mondo e  quella di presentarLo nella sua gloria al contemplante.
La Vergine accoglie lo Spirito santo e suo tramite concepisce il Verbo nel mondo: Madre del Vivente, Ella diviene ugualmente Madre dei viventi.
Le Vergini Nere, soprattutto se guardiamo a quelle originali, corrispondono in tutti i punti al canone della rappresentazione mariana risultante dal Concilio di Efeso, con una sola eccezione evidente che le fa divergere da esso, il  loro colore, cioè  il colore nero.
I legni usati possono essere diversi e, come già detto, compare spesso la quercia o il cedro, ma anche l’acacia. Secondo alcune testimonianze storiche, la statua originale di Notre-Dame du Puy era fatta di legno di acacia, il legno con il quale, secondo la tradizione, era fatta l’arca dell’alleanza e pure la Croce. E’ un legno simbolico e il suo nome ebraico SHITTA è numericamente equivalente al Nome di Dio SHADDAI = Onnipotente e al Nome dell’Angelo METATRON, cioè 314 che è anche il numero segreto dei Costruttori che ritroviamo scolpito nel portale della Cattedrale di Strasburgo. Ma tutto questo ci porterebbe troppo lontano.

Purtroppo molte delle statue originali sono sparite e sono state sostituite con altre che, se rispettano la forma e l’apparenza in generale, non sono identiche in molti importanti particolari, come per esempio il materiale di cui erano fatte.
Il legno è comunque universalmente simbolo della materia e alchemicamente della materia prima, che, plasmata dall’artefice, riceve diverse forme e, animata, diviene viva.
La Vergine assisa in maestà, che tiene sulle ginocchia il Cristo, corrisponde a un tipo che ritroviamo pure su numerosi timpani d’importanti cattedrali, come a Notre Dame di Parigi, a Reims, a Marsilia ecc.. La Vergine in maestà trasmette l’idea di “forza”, di “potenza”, aspetto che possiamo cogliere sia nella posizione regale, faraonica, dritta della Vergine, sia nello sguardo (suo e del Figlio) fermo, penetrante, che è rivolto a un imprecisato punto innanzi a sé, quasi a un’altra dimensione.  Questo tipo di Vergine riflette una volontà ben precisa che si  traduce in questa forma particolare e che corrisponde alla volontà di una trasmissione di tipo spirituale di una forza trasmutatrice, cui è connesso un insegnamento, una precisa conoscenza.

Il colore nero del viso della Vergine è rapportabile al senso superiore del simbolo dello stato originale non-manifesto: la testa, il capo, rappresentano la sommità e il principio che, in questo caso, essendo nero, è non manifesto. E’ il “nulla” della Genesi, che non è da intendersi come un niente privativo, ma come uno stato potenziale dell’Essere ancora non manifesto, in certo modo il grembo che contiene tutte le infinite e  possibili manifestazioni dell’Essere. Questo “nulla” è  potenzialmente “tutto” al momento in cui l’Essere si  manifesta, e diviene la matrice di ogni possibile manifestazione. Il volto nero è dunque simbolo di totalità, di pienezza, di quella realizzazione che è lo scopo della ricerca.
Il nero è collegabile all’idea di invisibilità, cioè di ciò che non ha forma e non può dunque essere visto con i sensi ordinari, di uno stato informale, assoluto, spirituale, di un velo che nasconde la centralità del vero Essere, il luogo in cui si risolvono i contrari, non suscettibile a essere afferrato da raziocinanti elucubrazioni. L’antico impero cinese era chiamato l’Impero del Centro e il suo popolo era detto  il “popolo nero”, come del resto gli Egiziani e i Caldei  in numerosi testi sono chiamati “teste nere”.
Per giungere agli stati superiori informali dell’Essere, e dunque a scorgere quello che è oltre il velo, per scorgere la Verità nascosta che al momento in cui appare rifulge di una Luce superiore a qualsiasi immaginazione, il ricercatore deve prima affrontare e vincere le tenebre inferiori, appunto gli stati formali della sua coscienza, superare qualsiasi pregiudizio e forma preconcetta e precostituita, riuscire a giungere all’azzeramento di se stesso, ad affrontare l’esperienza della morte cosciente, da vivo.

Questo si rappresenta nelle diverse tradizioni come la discesa agli Inferi, la discesa nel più profondo di se stessi, nelle tenebre più nere e fitte dell’inconscio denso di tranelli, ostacoli e resistenze, proprio perché non è conscio, è la parte sconosciuta e oscura dell’Essere. Solo la perfetta, onesta e radicale conoscenza di se stessi consente un dominio, fa essere re di se stessi, di tutti gli elementi, emozioni, pensieri, passioni, istinti, che, se non sono dominati, ci dominano. Per fare ciò occorre un ardire cavalleresco, una guerra santa perché è un combattimento in vista del raggiungimento di un Ideale elevatissimo, non ha uno scopo personale. E quando si è giunti alla dignità regale, non è sufficiente, perché è lì che si vede se uno ha la stoffa: prima non era niente e nessuno, era uno schiavo, schiavo del mondo ordinario, schiavo delle circostanze; ora invece ha una dignità regale, può sentirsi qualcuno, e deve quindi sacrificare questo “qualcuno”, ma non tutti ci riescono, non è da tutti. Tuttavia, se non si fa quest’ulteriore passo, si è tagliati fuori, si perde tutto.
Infatti, finché c’è “qualcuno”, per quanto questo qualcuno sia perfetto, un Angelo, che meglio non si potrebbe, finché c’è un altro, è certo che non c’è Dio.

L’ENIGMA DELLE VERGINI NERE – di Evelina Lazzarin

(Prima Parte)

Ci sono molte Madonne nere in Francia come in Europa occidentale che, oggetto di venerazione e di pellegrinaggi, non hanno mai mancato di incuriosire per il loro colore e per il mistero che circonda le loro origini. Può apparire strano che la Regina degli Angeli, l’Immacolata, la Madre del Sole di Giustizia possa essere stata rappresentata con un viso nero, con le mani nere, reggente sulle ginocchia il Figlio, pure dello stesso colore. Certamente il volto nero appare contrario ai canoni classici di rappresentazione della Vergine, senza considerare che con questa rappresentazione la Regina della Luce trova la sua collocazione originaria nel luogo più oscuro del Tempio: la cripta.

Continua a leggere “L’ENIGMA DELLE VERGINI NERE – di Evelina Lazzarin”

IL PROCESSO AI TEMPLARI – di Alessandro Mazzucchelli

Terza Parte

IL LUPO SOTTO LA VESTE DELL’AGNELLO

Leggiamo alcuni passi del decreto di arresto:
«Filippo, per grazia di Dio re di Francia […] Una cosa amara, una cosa deplorevole, una cosa sicuramente orribile da pensarsi, terribile da sentire, un crimine detestabile, un misfatto esecrabile, un atto abominevole, un’infamia oltraggiosa, una cosa del tutto disumana, ancora di più, estranea ad ogni forma di umanità, è pervenuta alle nostre orecchie, grazie ai rapporti di parecchie persone degne di fede, non senza colpirci di un grande stupore e farci fremere di un violento orrore […]

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GLI OCCHI DELLA CONOSCENZA – di Filippo Costanti

Da sempre l’uomo ha cercato di comprendere ciò che lo circonda, di esplorare dalle più lontane regioni cosmiche alle più nascoste zone di questo pianeta, dall’astro più grande che vedeva in cielo al più piccolo atomo sulla terra. Da sempre lo spirito scientifico dell’uomo ha sete di conoscenza e ha cercato gli strumenti più adeguati a osservare l’oggetto della sua indagine.

Ha costruito infatti microscopi per vedere cellule, batteri e virus, ha costruito telescopi dai più piccoli utilizzati da Galileo, ai giganteschi telescopi spaziali di oggi. Ed abbiamo fatto enormi passi scientifici e tecnologici. Ogni indagine scientifica ha il suo strumento che permette di rilevare, osservare e analizzare la realtà. Così per osservare una cellula abbiamo un microscopio, per vedere i corpi celesti i telescopi, per rilevare le attività cerebrali le EEG. Ma osservare un pensiero, un sentimento o ad esempio il mondo spirituale, testimoniato dai più grandi mistici e asceti della storia? Negarne l’esistenza non rende giustizia all’indagine scientifica né all’esperienza di tutti i giorni.

La sete di conoscenza ci spinge a ricercare e scoprire le leggi della fisica, dell’astronomia, della chimica. Ma troppo spesso abbiamo un vuoto incolmabile sulla nostra vera natura. Chi siamo? Qual è lo scopo della nostra vita? Sono tutti interrogativi che rimangono aperti fino a quando non ci affacciamo all’immenso universo della nostra interiorità.

E cosa dire poi dei diversi studiosi e sperimentatori che si sono dedicati all’indagine extrasensoriale, dalla medianità alla telepatia, dalle facoltà della mente alla separazione dell’anima dal corpo (sdoppiamento). Tutte testimonianze che fanno riflettere ma che lasciano sempre un interrogativo: saranno vere? Saranno solo illusioni? Tante sono le domande che necessitano di risposte e credere o meno alle parole altrui sembra non fare alcuna differenza. L’unico modo di avere delle certezze è la sperimentazione, che fa vivere e conoscere in prima persona. Per sperimentare dobbiamo però trovare strumenti di indagine adeguati che permettano di percepire e osservare questo mondo sino ad ora sconosciuto.

Quotidianamente siamo immersi in un mare di stimoli che provengono dal mondo esterno, e i nostri organi di senso sono sempre pronti a percepire questi stimoli, trasformarli in segnale elettrico che poi viene elaborato dal cervello, permettendoci in questo modo di avere coscienza del mondo che ci circonda. Tramite i cinque sensi siamo in grado di mantenere dei rapporti con il mondo in cui viviamo e nel quale ci muoviamo. Non solo, ci permettono anche di interagire e comunicare con altre persone. I sensi sono delle finestre che ci permettono di esplorare e conoscere. Ma noi non siamo soltanto un insieme organico di cellule, tessuti e organi coordinati da una eccellente macchina quale è il cervello, noi siamo prima di tutto un’anima. Così come il corpo ha dei mezzi per conoscere e relazionarsi al mondo che ci circonda, anche la nostra anima ha dei sensi che ci permettono di relazionare e conoscere chi siamo.

Essi vengono chiamati nelle tradizioni in modo diverso. In oriente sono conosciuti come chakras, in occidente come ruote ignee o anche centri di forza. Ed in entrambe le tradizioni finché non vengono azionati, messi in funzione grazie a delle tecniche specifiche, possono rimanere sconosciuti all’uomo e alla donna, latenti, impedendo la conoscenza di sé e di questo mondo. Queste tecniche utilizzano le facoltà della mente, come l’attenzione, la concentrazione e poi la meditazione e le invocazioni di parole sacre, chiamate in oriente mantra e qui da noi logodinami, per aprire le finestre dell’anima. Ecco che tutti sperimentando in noi stessi grazie con slancio d’amore nella ricerca, possiamo conoscere l’immensità del mondo interiore, e spirituale, utilizzando i nostri strumenti e le facoltà della nostra coscienza.

Le tecniche a cui ho accennato sono fondamentali e sono trattate approfonditamente nei Quaderni di Archeosofia: in particolare per potenziare l’attenzione, che si fa concentrazione e poi anche meditazione trovate le istruzioni nel Quaderno 9. Per imparare la respirazione ritmica energo-vitale, base di un’attenzione perfetta insieme all’astrazione e ritiro dei sensi, il Quaderno 13. Una trattazione completa e pratica sui centri di forza è Tecniche di risveglio iniziatico.

Facendo pratica con serietà, pazienza, perseveranza e sincero atteggiamento scientifico, possiamo conoscere e utilizzare in prima persona le facoltà della nostra mente, vedere come siamo fatti oltre il corpo fisico, viaggiare sulla terra nello stato di sdoppiamento e non solo. Possiamo utilizzare i nostri centri di forza e alla stregua dei grandi mistici del passato intraprendere un cammino interiore che ci farà scoprire tutto o quasi di noi stessi e del destino che ci attende; un viaggio nella propria interiorità per avere le risposte ad ogni domanda.