IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE – di Monica Capobianco

Capita a tutti di porsi delle domande in merito alla finalità della nostra vita e all’apparente suo eterno divenire privo di causa, soprattutto in periodi difficili come questo, dove assistiamo ad un susseguirsi di eventi infelici a cui spesso non sappiamo assegnare una precisa logica.
Speranza e fede ci sorreggono, la scienza ci aiuta, ma non basta. L’incertezza sul nostro futuro rimane.

Anche i nostri progenitori si ponevano delle domande. Vediamo in sintesi quale era la concezione della vita e della morte nelle principali civiltà e culture antiche. Ci accorgeremo che i meccanismi della rinascita e della logica dell’esistenza terrena, insieme alle descrizione della vita nell’Aldilà,  hanno un filo in comune che lega tutte le dottrine religiose più importanti; vi sono delle nette similitudini a cui non si può non dar credito, anche perché emergono dalle ricerche e dalle esperienze delle menti più brillanti e affidabili della storia dell’umanità, uomini e donne che hanno lasciato ai posteri una preziosa Saggezza, da loro acquisita con fatica e sacrificio.

Già cinque secoli prima di Cristo, lo storico Erodoto scriveva: “Gli Antichi Egizi erano un popolo che praticava il Culto dei Morti, ma amava intensamente la vita”.

Per gli egiziani la vita terrena era un dono che gli Dei facevano alla creatura umana per consentirle di prepararsi alla vera vita, quella ultraterrena, fatta di Eternità e Immortalità. La morte diventava così il passaggio tra la prima e la seconda fase e non era vissuta con terrore. Furono scritti dei libri per aiutare i morenti durante il viaggio nell’Aldilà, ma anche per guidare i vivi a prepararsi al “grande evento”, che veniva considerato alla stregua di una liberazione. Prezioso dunque fu il Libro Egiziano dei Morti, codificato nel VII secolo prima di Cristo in 165 capitoli e derivato dal famoso testo inciso nelle Piramidi.

Libro dei Morti fu la designazione araba usata dai violatori delle necropoli faraoniche per qualsiasi rotolo di papiro rinvenuto nelle tombe. Tale termine, accolto dai pionieri delle ricerche egittologiche, rimase in uso, anche se limitato alla pura miscellanea raccolta di formule diffusasi nel Nuovo Impero. Il vero titolo della raccolta è Libro per uscire al giorno, il che potrebbe far pensare alla possibilità per lo spirito del defunto di uscire durante il giorno dal sepolcro; potremmo però interpretarlo anche come Libro per uscire alla Vita: uscire al giorno significa penetrare nella Luce Immortale.
I testi nell’Antico Impero erano redatti esclusivamente per il Faraone e per una stretta cerchia di appartenenti alla casa reale, poi la rivoluzione democratica operata alla fine della VI Dinastia elevò anche il defunto comune alla condizione di essere innalzato alla vita degli Dei.

Nel culto egiziano l’idea del Dio che risorge e l’itinerario dalla vita alla morte e dalla morte ad una nuova vita, è centrale e fondamentale. Si parla anche di una Dottrina dell’Andare e del Ritorno riferita all’atto creativo concepito come il divenire divino nel divenire cosmico. Ne parla in maniera semplice e chiara Alessandro Benassai nel suo studio su “I Misteri dell’antico Egitto”.

Nella mitologia egizia si nascondeva la ferma credenza tradizionale che ogni essere umano potesse ottenere la vera immortalità ripercorrendo la via tracciata dal Dio Salvatore e misericordioso, da cui ciascuno dipende come la vita nella natura dipende dai raggi del Sole. Il Sole infatti per gli Egiziani rappresentava la manifestazione del Divino nell’Umano: il Fanciullo divino che nasce dal loto cosmico primordiale è Râ, il principio stesso della vita e della luce, lo Spirito che compenetra il Sole dispensatore di luce e vita.

Secondo la Tradizione Arcaica vi è una stretta analogia fra le fasi della Creazione e la Via della Salvezza.
Il Libro Egiziano dei Morti non viene presentato come libro sacro, paragonabile alla Bibbia o al Corano. E non sembra nemmeno essere solamente un rituale funerario. Lo potremmo definire una raccolta di formule la cui lettura mirava al raggiungimento di effetti ben precisi, come disgregare e respingere le entità avverse, o proteggere la mummia ed il suo “doppio energetico” (il KA,  che aveva il compito di intraprendere il viaggio nell’Oltretomba per sottoporsi al giudizio di Osiride) costruendo come una corazza difensiva, invulnerabile.

Le singole sezioni di cui si compone il testo vennero chiamate “capitoli” dai primi traduttori, mentre lo specifico testo originale è “formula” rappresentata in geroglifico dalla bocca umana; ciò volle indicare che le “composizioni rituali” non erano semplici divisioni del testo, ma dovevano essere effettivamente pronunciate. Generalmente il Kheri-Heb, sacerdote lettore, con la “giusta voce” e impersonando il defunto, recita queste formule il giorno del funerale, accompagnando la processione sino alla tomba ove il testo sacro sarà poi deposto, prima che il pesante lastrone di pietra sia fatto discendere sul corridoio sotterraneo per bloccare l’accesso al sepolcro. Il capitolo introduttivo del Libro dei Morti specifica infatti: “Formule pronunciate il giorno del funerale, giungendo (alla tomba) e prima di andar via…”.egitto-osiride.jpg

Il Sacerdote che recita le “frasi magiche” vuole risvegliare l’anima del disincarnato alla propria dignità di Figlio o Figlia di Dio, vuole in qualche modo risvegliare in lui la forza e la fede necessarie a superare tutte le prove che si presenteranno nel mondo dei trapassati, ricordandogli la necessità di imporsi agli Dei come suoi pari; al contempo mira a placare l’ira degli stessi Dei nel caso lo trovassero indegno. Nel testo troviamo sia l’affermazione della volontà di un Ego possente che nulla teme, neanche la collera divina, sia la subordinazione incondizionata dello spirito al supremo volere di Dio.

Un particolare interessante, a volte trascurato, è che il Libro dei Morti fu considerato molto utile per i vivi.
La Rubrica del Cap. XVIII riporta: “…Colui che reciterà questo capitolo su di sé sarà sano sulla terra e potrà avanzare nel fuoco senza che gli capiti alcunché di male, in verità”.
Nel Cap. LIX troviamo l’affermazione: “Io raggiungo un’età avanzata…” che non avrebbe senso riferita al Ka di un defunto.
Nel Cap. LXXI è scritto: “datemi numerosi anni di vita in aggiunta ai miei numerosi anni di vita”.
La Rubrica del Cap. CXXV specifica che: “se avrà scritto questo teso su sé, esso lo farà prosperare… egli aumenterà nell’affetto del re e della sua corte”.
E ancora più chiaramente la Rubrica del Cap. CXXXV sottolinea che “Se conoscerà (questa formula) sulla terra, egli diventerà come Thoth, onorato dai viventi e non soccomberà vittima dell’ira regale… ma sarà fatto avanzare sino a buona età”.
Nella Rubrica del Cap. CLXIII troviamo: “Se ha letto questo in terra, egli non sarà portato via dagli emissari… non sarà ferito, né morirà sotto i colpi del re. Non sarà arrestato e messo in carcere, ma entrerà tra i Cortigiani”.

Potrei riportare tanti altri esempi ma concludo con quest’ultima citazione, dalla Rubrica del Cap. CLXII destinata al re: “Se tu poni l’immagine di questa dea (sulla quale è stata recitata la formula) al collo del re che è in terra, egli sarà come una fiamma nell’inseguire i suoi nemici e i suoi cavalli non conosceranno tregua”.

Estratto dalla conferenza/studio di Monica Capobianco, IL MISTERO DELLA VITA E DELLA MORTE.

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