IL BELLO E IL SACRO – di Massimiliano Galastri

APPUNTI SULL’ESTETICA DELL’ICONA

C’è poco da fare, le icone non mi sono mai piaciute. Soprattutto non ero riuscito a lungo a spiegarmi perché i primi cristiani optarono per un’arte che sembra così astratta e cruda.
Nell’Impero romano non mancavano esempi e modelli artistici capaci sia di un realismo più esatto (la prospettiva era conosciuta bene in pittura) sia modelli improntati al senso della magnificenza, o del meraviglioso o del simbolico.
Proprio non si capisce perché il Cristianesimo optò per una forma di rappresentazione artistica così strana, deformata, tesa, irrealistica fino a sfiorare l’irrazionale.

Si può capire l’arte simbolica e criptica delle catacombe, il loro necessario codice cifrato, la forza del segreto che emerge dai pochi, essenziali segni lasciati dai primi cristiani ai tempi delle grandi persecuzioni, ma non si può capire storicamente perché i pittori cristiani scelsero questo stile e questo codice originali anche quando il cristianesimo divenne religione tollerata prima e di stato poi.

La prima impressione davanti alla rappresentazione iconica è che sia stata dipinta da dei pittori incapaci. Si ha l’impressione che sia sostanzialmente una forma d’arte “brutta” perché l’artista non è stato capace di rappresentare e quindi di comunicare quello che sentiva, pensava e vedeva. Ma siamo sicuri che sia così?


Qual è la sottile differenza che passa tra ciò che è semplicemente bello e ciò che è bello e sacro? Abbiamo tanti esempi di arte sacra in tutto il mondo. Essa va distinta in modo radicale dall’arte semplicemente a carattere o tema religioso, commemorativo o devozionale.

Per capire l’icona bisogna prima percepire con chiarezza questa distinzione.
Chi ha visitato un po’ il mondo si sarà sicuramente imbattuto di persona in qualche monumento o vestigia del passato rimasti ammantati di questo magnetismo che emana dal mondo del Sacro.
Chi ha visitato dal vivo le grandi Piramidi e i loro segreti corridoi, chi ha potuto sostare a lungo e magari aggirarsi solitario dentro la cattedrale di Chartres, passeggiare nelle grotte di Ajanta o vedere calare la notte sulla cima di Le Monte S. Michel sa di cosa stiamo parlando.

In questi luoghi, così lontani tra loro in tutti i sensi, si parla la stessa lingua, che sussurra all’orecchio teso e predisposto all’ascolto lo stesso messaggio. Nel silenzio e il rispetto evocati da queste grandi costruzioni l’anima si pone in ascolto e riesce ad udire la voce dello spirito, il richiamo dell’Infinito.
Ancora non contempla, ma una nuova forma di udito si risveglia in questi posti. Infatti l’occhio dell’osservatore vede, ammira, riconosce questo arcano linguaggio ma se dovesse spiegarlo dovrebbe ammettere che non lo capisce, non sa interpretarlo né decifrarlo.

Tutti restano attoniti davanti alla manifestazione del Sacro che l’Arte (sacra) ben riuscita riesce ad evocare ed invocare nello spettatore. I simboli sembrano viventi, le geometrie studiate fino al millimetro permettono di imbrigliare forze invisibili e riversarle sullo spettatore.
Qualcuno (solo qualcuno purtroppo) di questi artisti, o maghi, o scienziati, ha delineato nei canoni scelti le leggi per mettere un mondo in presenza dell’altro. Per mettere il nostro mondo magicamente in comunione e alla Presenza del Divino.

Di bello ce n’è tanto nell’arte, e nel mondo un po’ dovunque. Il bello attrae perché ciò che è buono deve necessariamente essere anche bello. La bellezza è una delle vesti della bontà. Anche i Classici lo avevano capito. Ovviamente la Bellezza è uno degli attributi assoluti di Dio. Infatti la Kabbalà ebraica (ma anche la teologia Indù) non certo a caso, indica il cuore dell’uomo come il luogo dove la creature potrà contemplare Dio in tutta la sua bellezza.

Ma nel nostro mondo il bello si è frantumato e frammentato nella natura, è un frattale della vera bellezza, della bellezza integrale di Dio. Ed è diverso cercare di rappresentare il bello in qualche forma tracciando la sua effige in una porzione della natura (un fiore, un pesce…), dell’uomo (un ritratto), della vita (una vicenda storica) e di quant’altro, altra cosa è l’ambizione artistica più rischiosa e quasi titanica: cercare di dare un volto a Dio, di rappresentare il bello di Dio in forma grafica.
Dare un volto all’Assoluto e renderlo percepibile agli altri è praticamente un atto prometeico.

Non voglio esprimere pareri sulla teologia dell’icona: altri come Evdokimov, Soloviev, Florenskij e tanti altri sono stati fin troppo eloquenti e non c’è bisogno di aggiungere molto alle loro spiegazioni in difesa dell’arte iconografica. E prima di loro tutti i martiri che hanno difeso queste forme d’arte fino alle estreme conseguenze, testimoniano di quanto quest’arte avesse per loro un valore assoluto, indiscutibile.

Così come la Cattedrale, l’icona non si spiega (come si è soliti fare con le opere d’arte), l’icona si vive; la vive sia chi dipinge sia chi l’osserva. Altrimenti resta estranea, impenetrabile, fugge l’occhio profano che vuole violarla o meglio l’occhio profano fugge dalla presenza dell’icona.
Per apprezzare l’icona, è quasi inutile dirlo, bisogna avere la fortuna di poter vedere dal vivo una VERA icona.

Le vere icone sono diventare rare, poche sono scampate alla distruzione del tempo e degli uomini. Ma sono quelle che si devono andare a vedere se si vuole penetrare un poco il loro mistero.
Fruire davvero di un’icona non crea quel senso di indigestione che l’amante dell’arte prova dopo essersi goduto la visita qualche grande galleria o qualche famoso museo. Non ci sono sindromi di Stendhal davanti all’icona. Chi sa contemplare un’icona ne esce alleggerito, a volte intimorito, ma di sicuro l’appetito estetico dello spettatore non resta ingolfato, semmai stuzzicato.

La bellezza di Dio e del suo Mondo di cui l’icona vuole essere portatrice come tutte le forme di arte sacra è anche terribile.
Perciò a volte l’icona intimorisce lo spettatore.
L’icona è un’esperienza estetica da provare. Per capire ciò che scrivo non c’è altro da fare che imbattersi in una vera icona. Essa può intimidire o attrarre a seconda delle condizioni dello spettatore. Quasi come in fisica moderna, secondo il principio di indeterminazione, l’interazione tra spettatore e oggetto è vincolante e imprescindibile. Il risultato di quest’interazione è l’impressione estetica, tutta particolare, che resta scolpita a lungo nella coscienza dello spettatore stesso. Essa polarizza chi la osserva e le conseguenze sono estreme: davanti all’icona o si fugge o si rimane affascinati, attratti in modo lucido (non ipnotico) dalla sua aura.

Può sembrare troppo radicale dire che davanti all’icona o si fugge o si resta magnetizzati positivamente. Invece è così ogni volta che l’essere umano introduce se stesso alla presenza del Sacro.
L’icona riuscita è uno dei veicoli indiscussi di questa Presenza e pertanto l’uomo che incontra l’icona non può restare indifferente alla profusione del suo linguaggio che impatta violentemente l’occhio dello spettatore: è costretto ad accogliere il messaggio o a chiudere gli occhi e sottrarsi alla sua presenza.
Quindi le condizioni di chi guarda l’icona sono determinanti rispetto al risultato che ne viene fuori.

Carolina Franza

L’arte moderna e contemporanea ha cercato a lungo questo dialogo con lo spettatore, fino a perdersi. Ma essendo un dialogo incapace di intimità e di condivisione profonda con l’interlocutore, si è sempre interrotto fallendo lo scopo. Fino a diventare idiosincrasico, perdendo ogni valore semantico e facendo decadere l’arte ad una espressione monadica e solipsistica dell’artista. Un’arte che voleva essere libera e vicina allo spettatore si è imprigionata nell’anarchia e nel caos indeterministico.


L’arte attuale si è chiusa e allontanata dalla gente che ormai fugge e deride l’arte contemporanea, perché si è rifugiata nella torre di linguaggi incomprensibili fino a creare  forme d’arte prive di qualsiasi comunicatività e comunicabilità.

Au contraire, nella solitudine e nell’isolamento del monaco fu forgiata l’arte più intima, più ambiziosa, più comunicativa. Quella che pretende di mettere in comunicazione le anime tra di loro e le anime addirittura con il Divino e l’Assoluto. L’arte che vuole addirittura sottrarre l’artista che deve diventare un medium, trasparente come il cristallo, fino ad annullare la presenza stessa dell’artista per mettere in comunione la creatura con il suo Creatore. L’artista nell’icona scompare, deve essere solo il tramite di una manifestazione, di un’epifania.

Ma cosa “rappresenta“ allora l’icona? Nelle linee della sua geometria rigorosa, mai estranee o lontane dalle mani e dal cuore di chi le ha dipinte, nei volti penetranti, nel rovesciamento della prospettiva (voluto) ottenuto in modo da focalizzare il “punto di fuga” proprio al “centro” dello spettatore stanno alcuni dei segreti di quest’arte sublime. Solo alcuni.  Altri sono direttamente riversati nell’opera dalla mistica dell’artista che trasmette alla sua creazione tutto un carisma che si può tramandare all’opera d’arte solo se nell’artista ci sono delle condizioni esatte. Quali? Che in esso sia vivo e presente il soggetto che egli si accinge a dipingere.
Che sia il Cristo, l’Angelo, la Vergine o il Santo non fa differenza. L’iconografo può pretendere di creare una vera Icona solo nel momento in cui nella sua anima sono compresenti non le effigi, non le idee, ma la PERSONA che vuole dipingere.

Per questo giustamente Evdokimov parla di teologia della presenza nell’icona. Non di arte rappresentativa, figurativa, arte che vuole raffigurare qualcosa: l’icona vuole rendere presente allo spettatore il mondo dello Spirito e renderlo percepibile a tutti.
Pertanto l’icona è una delle forme d’arte più radicali, “scandalose”, ed estreme che esistono.
Quindi la sfida artistica nell’arte iconografica è immensa e non si può spiegare in un piccolo articolo.

Basterà dire in conclusione questo: l’icona non è un’arte simbolica o simbolista. Si può rappresentare un simbolo in forma bruta o in forma artistica. Ma esso resterà sempre un simbolo, e il suo valore di simbolo non verrà intaccato. Mentre l’icona, sebbene mai priva di un simbolismo intrinseco, non è un simbolo ma uno “specchio” in cui la Realtà stessa dei Mondi sovrasensibili riesce a far cadere qualche rapido barbaglio e rendercelo fruibile, percepibile, riesce a farci sentire la sua immensa Presenza senza mai violare il suo Segreto. Sempre Evdokimov chiamava l’Icona “specchio temporale dell’Eternità”. A ragione la definisce come uno specchio.

La teologia estetica dell’icona mi è sempre sfuggita  e con essa la possibilità di godere di queste opere d’arte finché non ho compreso una cosa: nell’arte profana la rappresentazione e la ricerca del bello è mirata a rappresentare ciò che si oppone alla Luce sia esso una forma e/o un colore. L’arte profana è innamorata di quella bellezza che vive di riflesso e pertanto rappresenta nei sui slanci migliori ciò che assorbe la Luce e non ciò che la sprigiona!
Nell’icona la pretesa artistica e la tensione artistica mira invece a rappresentare la Luce stessa quale essa è.
E con essa la Luce della Verità.

Tutto ciò che ostacola il propagarsi di questa Luce, vi si oppone, o delimita il suo potere trasfigurante tende ad essere soppresso dall’artista del sacro il più possibile. Ciò nei limiti della possibilità rappresentativa che comunque impedisce una rappresentazione perfetta, “diretta” della Luce stessa. La materia stessa limita lo slancio e l’intuizione dell’artista e i suoi mezzi restano goffi e poveri rispetto al suo bisogno di sprigionare questa luce interiore nel mondo.
Diciamo che l’icona si pone come l'”ombra della Luce”; rappresentata al meglio quando l’iconografo ha compiuto il suo capolavoro.

Invece nell’arte profana inconsapevolmente l’uomo raffigura ciò che si oppone alla libera propagazione della Luce e inevitabilmente si ritrova a ritrarre il deifugo, ovvero il vuoto: emerge allora il ritratto tragico, terribile, angoscioso della perpetua caduta nella materia della coscienza. Il ritratto assume i tratti del “volto dell’Abisso”.

Dietro la prospettiva dell’arte iconica è celato il segreto del “ribaltamento” della visione della natura attuale del cosmo e dell’uomo: questa natura intera, che da materializzata e materializzante deve diventare sotto l’influsso di Cristo spiritualizzata e spiritualizzante.
Tutta l’Estetica dell’icona si riassume qui: essa permette, accenna, bisbiglia, e a suo tempo vela, rivela e acconsente la visione della bellezza vera dell’Uomo totale trasfigurato nella bellezza della totalità di Dio.
L’icona è uno sguardo gettato nell’abisso dell’amore di Dio.

IL MITO DELLA CAVERNA (DI PLATONE) – di Massimiliano Galastri

LA METAFORA DEL RISVEGLIO mito caverna 1

Il mito tradizionale è sempre una chiave della quale il servirsi è impresa di pochi, perché appartiene al mondo dell’esoterismo. (….) Il mito è il commento razionale degli atti del culto, trasmesso nei secoli attraverso il tessuto dei simboli.
(T.Palamidessi – Q.2 – L’iniziazione per la donna e l’Adeptato femminile)

Per apprendere a fondo le verità celate dietro i miti occorre una attenta disamina e una profonda meditazione.
Il mito pone il suo valore intrinseco sempre su un aspetto: la credenza o la fede di una realtà trascendente la quale preesiste ed è anzi il fondamento della realtà normalmente conosciuta dall’uomo. Spesso il mito è ritenuto il rappresentante e il testimone fedele, nel nostro mondo inferiore e vincolato alla materia, della Realtà superiore, ed il solo mezzo idoneo a gettare un ponte tra le due sfere in modo da rendere l’una comunicante con l’altra.

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